Poeta e Scrittore

Salvatore Quasimodo: poesia e scrittura   

Opere…alcune

  • Raccolte di poesie Acque e terre, Firenze, sulla rivista Solaria, 1930.
  • Oboe sommerso, Genova, sulla rivista Circoli, 1932.
  • Odore di eucalyptus ed altri versi, Firenze, Antico Fattore, 1933.
  • Erato e Apòllìon, Milano, Scheiwiller, 1936.
  • Nuove Poesie, Milano, Primi Piani, 1938.
  • Ed è subito sera, Milano-Verona, A. Mondadori, 1942.
  • Giorno dopo giorno, Milano, A. Mondadori, 1947.
  • La vita non è sogno, Milano, A. Mondadori, 1949.
  • Il falso e vero verde, Milano, Schwarz, 1956.
  • La terra impareggiabile, Milano, A. Mondadori, 1958.
  • Dare e avere. 1959-1965, Milano, A. Mondadori, 1966.
  • Lirici greci traduzione (1940).
  • Il Vangelo secondo Giovanni, tradotto dal greco da, Milano, Gentile, (1945).
  • Dall’Odissea (1946).
  • Edipo re (1947). Ecuba e Eracle di Euripide.
  • Canti di Catullo (1955).
  • Il fiore delle “Georgiche”, Milano, Edizioni della Conchiglia, (1942);
  • Milano, Gentile, (1944);
  • Milano, A. Mondadori, (1957).
  • Fiore dell’Antologia Palatina (1958).
  • Antonio e Cleopatra di W. Shakespeare.
  • Antologie Modifica Lirica d’amore italiana, dalle origini ai nostri giorni (1957).
  • Poesia italiana del dopoguerra (1958).
  • Altri scritti Petrarca e il sentimento della solitudine, Milano, Garotto, (1945).
  • Scritti sul teatro (1961).
  • L’amore di Galatea libretto per musica (1964)
  • Il poeta e il politico e altri saggi, Milano, Schwarz, (1967).
  • Leonida di Taranto, Milano, Guido Le Noci ed., 1968;
  • Manduria, Lacaita, (1969). Lettere d’amore di Quasimodo (post., 1969)
  • Poesie e discorsi sulla poesia (post., 1971).
  • Marzabotto parla. Con scritti di Salvatore Quasimodo, Giuseppe Dozza (post.,1976)
  • A colpo omicida e altri scritti (post., 1977).
 

Poesie e Scritti

ED E’ SUBITO SERA

Ed è subito sera è una intensa poesia di Salvatore Quasimodo. Si tratta di uno tra i componimenti più brevi e più famosi del poeta siciliano e più in generale della corrente ermetica. Originariamente gli intensi versi liberi di questa breve poesia costituivano la terzina finale di una poesia più lunga intitolata Solitudini contenuta in Acque e terre, la prima raccolta di poesie dell’autore pubblicata nel 1930, comprendente le liriche scritte dal poeta dal 1920 al 1929 (alcune delle quali erano già apparse sulla rivista Solaria).

Una raccolta che rappresenta, insieme con Oboe sommerso, la fase del primo Quasimodo. Tagliando i diciannove versi iniziali di Solitudini, Quasimodo ne estrasse successivamente i tre versi di Ed è subito sera, che è la poesia di apertura della raccolta omonima (pubblicata nel 1942).      

“Ognuno sta solo

sul cuor della terra,

trafitto da un raggio di sole,

ed è subito sera.”

In questa poesia il poeta ha racchiuso i tre momenti della vita dell’uomo: la solitudine, derivata dall’incomunicabilità; l’alternarsi della gioia e del dolore; il senso della precarietà della vita. Ognuno, dice il poeta, pur vivendo in mezzo agli uomini (sul cuor della terra) si sente fortemente solo a causa dell’impossibilità di stabilire un rapporto duraturo con qualcuno. L’ipotesi più accreditata del significato di star solo “sul cuor della terra” attribuisce alle parole il significato di star solo nel momento individuale ed intimo della ricerca del senso dell’esistenza, ovvero di ciò che permette all’uomo di sorpassare la morte. Tuttavia, pur essendo solo, viene stimolato dalle illusioni (un raggio di sole), dalla ricerca di una felicità a volte apparente. Questa ricerca è nello stesso tempo gioia e dolore, perciò il poeta usa il termine “trafitto”, cioè, ferito dal raggio di sole stesso. E intanto, come alla luce del giorno succede rapidamente l’oscurità notturna, per la vita dell’uomo giunge la morte: ed è subito sera.

La prima raccolta di Quasimodo, Acque e terre(1930), è incentrata sul tema della sua terra natale, la Sicilia, che l’autore lasciò già nel 1919: l’isola diviene l’emblema di una felicità perduta cui si contrappone l’asprezza della condizione presente, dell’esilio in cui il poeta è costretto a vivere (così in una delle liriche più celebri del libro, Vento a Tindari). Dalla rievocazione del tempo passato emerge spesso un’angoscia esistenziale che, nella forzata lontananza, si fa sentire in tutta la sua pena.

Questa condizione di dolore insopprimibile assume particolare rilievo quando il ricordo è legato ad una figura femminile, come nella poesia Antico inverno, oppure a ritmi e motivi più antichi, di origine anche popolare.
Se in questa prima raccolta Quasimodo appare legato a modelli abbastanza riconoscibili (soprattutto D’Annunzio, del quale viene ripresa la tendenza all’identificazione con la natura), in Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936) il poeta raggiunge la piena e personale maturità espressiva. La ricerca della pace interiore è affidata ad un rapporto col divino che è, e resterà successivamente, tormentato, mentre la Sicilia si configura come terra del mito, terra depositaria della cultura greca: non a caso Quasimodo pubblicherà, nel 1940, una notissima traduzione dei Lirici greci.

In particolare, nel libro del 1936 vengono celebrati Apollo – il dio del sole ma anche il dio cui sono legate le Muse, e quindi la stessa creazione poetica che è resa dolorosa dalla distanza fisica dell’isola – ed Ulisse, l’esule per eccellenza. È in queste raccolte che si può cogliere appieno la suggestione dell’ermetismo, di un linguaggio che ricorre spesso all’analogia e tende ad abolire i nessi logici tra le parole: importante è in questo senso l’uso frequente dell’articolo indeterminativo e degli spazi bianchi, che, all’interno della lirica, sembrano rimandare continuamente a una serie di significati nascosti che non possono trovare una piena espressione. Nelle Nuove poesie (pubblicate insieme alle raccolte precedenti nel volume Ed è subito sera del 1942 e scritte a partire dal 1936), il ritmo diventa più disteso grazie anche all’uso più frequente dell’endecasillabo: il ricordo della Sicilia è ancora vivissimo ma si avverte nel poeta un’inquietudine nuova, la voglia di uscire dalla sua solitudine e confrontarsi con i luoghi e le persone della sua vita attuale.

In alcune liriche compare infatti il paesaggio lombardo, esemplificato dalla «dolce collina d’Ardenno» che porta all’orecchio del poeta «un fremere di passi umani»  (La dolce collina).  

Lontani uccelli aperti nella sera

tremano sul fiume. E la pioggia insiste

e il sibilo dei pioppi illuminati

dal vento. Come ogni cosa remota

ritorni nella mente. Il verde lieve

della tua veste è qui fra le piante

arse dai fulmini dove s’innalza

la dolce collina d’Ardenno e s’ode

il nibbio sui ventagli di saggina.

 

Forse in quel volo a spirali serrate

s’affidava il mio deluso ritorno,

l’asprezza, la vinta pietà cristiana,

e questa pena nuda di dolore.

Hai un fiore di corallo sui capelli.

Ma il tuo viso è un’ombra che non muta;

(cosi fa morte). Dalle scure case

del tuo borgo ascolto l’Adda e la pioggia,

o forse un fremere di passi umani,

fra le tenere canne delle rive.

 

(da ‘Ed è subito sera’, Mondadori, 1942)

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Questa volontà di dialogo si fa evidente nelle raccolte successive, segnate da un forte impegno civile e politico sollecitato dalla tragedia della guerra; la poesia rarefatta degli anni giovanili lascia il posto ad un linguaggio più comprensibile, dai ritmi più ampi e distesi. Così avviene in Giorno dopo giorno (1947) dove le vicende belliche costituiscono il tema dominante. La voce del poeta, annichilita di fronte alla barbarie («anche le nostre cetre erano appese», afferma in Alle fronde dei salici), non può che contemplare la miseria della città bombardata, o soffermarsi sul dolore dei soldati impegnati al fronte, mentre affiorano alla memoria delicate figure femminili, simboli di un’armonia ormai perduta (S’ode ancora il mare). L’unica speranza di riscatto è allora costituita dalla pietà umana (Forse il cuore).

Forse il cuore (Giorno dopo giorno, 1947)

Sprofonderà l’odore acre dei tigli

Nella notte di pioggia.

Sarà vano Il tempo della gioia, la sua furia,

quel suo morso di fulmine che schianta.

Rimane appena aperta l’indolenza,

il ricordo di un gesto, d’una sillaba,

ma come d’un volo lento d’uccelli fra vapori di nebbia.

E ancora attendi, non so che cosa,

mia sperduta;

forse un’ora che decida,

che richiami il principio o la fine:

uguale sorte, ormai.

Qui nero il fumo degli incendi

secca ancora la gola.

Se lo puoi,

dimentica quel sapore di zolfo e la paura.

Le parole ci stancano,

risalgono da un’acqua lapidata;

forse il cuore ci resta, forse il cuore.

 

Salvatore Quasimodo

La guerra… 

Alle fronde dei salici 

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio,

al lamento d’agnello dei fanciulli,

all’urlo nero della madre

che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

Strage di Portella delle ginestre.  Il Primo Maggio 1947, a Portella delle Ginestre, presso la Piana degli albanesi in Sicilia, la banda Salvatore Giuliano assalì una folla contadina riunitasi per un comizio, uccidendo 12 persone. Scritti il 13 febbraio 1947, qualche mese prima della strage, questi versi sembrano presagire la tragedia. Tra il 12 e il 14 maggio 1947 Quasimodo stese un famoso articolo nel quale, descrivendo il massacro dei contadini e il dolore delle madri, concludeva: «Guardate il viso di queste madri e ricordate che la Sicilia è “anche” terra italiana, fate davvero che “a colpo omicida non si renda colpo omicida” (Sono antiche parole ricantate da Eschilo). A Portella delle Ginestre ricade ancora il silenzio. Ma i suoi morti continuano davvero ad abitare coi vivi, il dolore del distacco, il lamento del Primo Maggio vuole la sua quiete, perché quella frequenza sia dolce e rassegnata. Innocente è sempre in Sicilia chi cade da oscura violenza e un innocente non ha bisogno né di conforto né di elogio ma di giustizia». Dall’opera A colpo omicida e altri scritti pagine 69 – 70. Di fronte a questo Sud depresso e pieno di ingiustizia il poeta conclude esprimendo il suo risentimento amaro e impotente: « E questa sera carica d’inverno / è ancora nostra, e qui ripeto a te /il mio assurdo contrappunto /di dolcezze e di furori/ un lamento d’amore senza amore».

È la svolta quasimodiana verso temi che riguardano la società italiana, mentre l’autore si trova ormai definitivamente stabilito a Milano. In La vita non è sogno (1949) il Sud è cantato come luogo di ingiustizia e di sofferenza, dove il sangue continua a macchiare le strade (Lamento per il Sud); il rapporto con Dio si configura come un dialogo serrato sul tema del dolore e della solitudine umana. Il poeta sente l’esigenza di confrontarsi con i propri affetti, con la madre che ha lasciato quand’era ancora un ragazzo (e che continua a vivere la sua vita semplice ed ignara dell’angoscia del figlio ormai adulto), o col ricordo della prima moglie Bice Donetti. Nella raccolta Il falso e vero verde (1956) dove lo stesso titolo è indicativo di un’estrema incertezza esistenziale, un’intera sezione è dedicata alla Sicilia, ma nel volume trova posto anche una sofferta meditazione sui campi di concentramento che esprime «un no alla morte, morta ad Auschwitz» (Auschwitz).

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.


Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: ” Il lavoro vi renderà liberi ”
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le doccie a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

LAMENTO PER IL SUD

La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.

Salvatore Quasimodo

La terra impareggiabile (1958) mostra un linguaggio più vicino alla cronaca, legato alla rappresentazione della Milano simbolo di quella «civiltà dell’atomo» che porta ad una condizione di devastante solitudine e conferma nel poeta la voglia di dialogare con gli altri uomini, fratelli di dolore. L’isola natìa è luogo mitizzato, «terra impareggiabile» appunto, ma è anche memoria di eventi tragici come il terremoto di Messina del 1908 

AL PADRE

Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.

Salvatore Quasimodo

Scritta in occasione dei 90 anni del padre, esalta anche la bellezza della terra siciliana e racconta la tragedia del 28 dicembre 1908, quando Messina fu distrutta dal terremoto e maremoto.

“Così mio padre imparò la morte” di Alessandro Quasimodo

Mio padre a sette anni è a contatto quotidiano con la morte. Questo è stato il terremoto di Messina per Salvatore Quasimodo. Il nonno, ferroviere, era stato mandato a riattivare la stazione locale, in un momento in cui non esistevano nemmeno i binari. Vivevano accampati nei vagoni, come profughi, senza luce e senz’acqua corrente. Mio padre ha incontrato una realtà così tragica nell’età mitica dell’infanzia. Un’età che gli è stata sottratta: ha dovuto diventare adulto. La morte nel primo periodo dopo la sciagura era una presenza costante. La città era isolata, migliaia di persone perivano per le conseguenze della mancanza di igiene. E non solo. Proprio nello spiazzo di fronte alla stazione dove abitava la famiglia Quasimodo venivano uccisi coloro che erano sorpresi a rubare tra le macerie delle case abbandonate. Fucilati così, senza un processo, di fronte agli occhi di Salvatore, ancora bambino. I ricordi di mio padre legati al terremoto sono tristezza, privazione e miseria. Un sentirsi defraudato della vita, di “qualcosa” che gli apparteneva, «devi crescere, devi bruciare le tappe» diceva l’immane tragedia. Migliaia di persone sono state derubate e non hanno potuto pretendere nulla indietro. Quasimodo ha cominciato a scrivere poesie a 10 anni, dopo 3 anni dal terremoto.
Perché al di là della catastrofe iniziale lo strazio è predurato nel tempo. Io da attore penso al Teatro Vittorio Emanuele, chiuso con la rappresentazione dell’Aida il 28 dicembre 1908, è stato riaperto negli anni ’80. La mancanza si attesta su tempi lunghi: per il teatro il trono è stato vacante per 76 – 77 anni, mentre in via della Croce Rossa le baracche costruite per sostituire le abitazioni spazzate via ci sono ancora. E questo senso di vuoto, di tragedia, si capisce leggendo la produzione di mio padre. Le poesie giovanili, di cui sono andato a caccia fin dagli anni ’70 – quando lo zio di Giorgio La Pira, Luigi Occhipinti, mi ha donato un quaderno di 23 poesie custodito con cura dal nipote – sono tutte estremamente drammatiche. Nel 1915 quando scrive la lirica Visioni autunnali ha 14 anni. Lo scritto è stato conservato per circa quarant’anni da Giuseppe Raneri, un suo compagno di classe all’Istituto Jaci che era riuscito a ottenerlo corrompendo il fratello più piccolo di Salvatore. Ebbene così nella poesia Quasimodo descrive il tramonto: «Riverberi di vespro/sanguinolenti come carne/ macellata da poco.» Ecco questo ragazzino che guarda al tramonto e non vi vede il rosso del fuoco o dell’amore, ma sangue di morte. Il ricordo dei tempi del terremoto è desolazione assoluta. Racconti agghiaccianti della gente che era sfuggita dalle proprie case andando sulla riva del mare, credendo di stare al sicuro: il maremoto si è portato via decine di migliaia di persone. E quelli che son rimasti è come se fossero tagliati fuori dal mondo. Certo, ci sono episodi confortanti scritti nella memoria collettiva, come il gesto generoso della Regina Elena che si mise a fare la crocerossina, ma la privazione era su tutti i fronti. Era impossibile nutrirsi adeguatamente, c’era il pericolo di mangiare e bere sostanze contaminate, ecco allora nella poesia Al padre l’immagine delle «mele disseccate a ghirlanda», un nutrimento “sicuro”. Nel vuoto totale, però, c’è stata la scuola. Gli insegnanti dell’Istituto per geometri erano Francesco Satullo, Federico Rampolla del Tindaro. Intellettuali che facevano leggere a questi “malcapitati” Dostoevskij, Agostino, i poeti francesi. Il vuoto si riempì di letteratura. Penso che anche oggi stupirebbe il lavoro di quei professori, figuriamoci all’epoca. Figuriamoci se poi i “malcapitati” si chiamavano Giorgio La Pira, Salvatore Pugliatti e Salvatore Quasimodo. Ma, nonostante il talento e le passioni letterarie, certamente c’era in mio padre un sentimento molto singolare per un ragazzino, non c’era ingenuità, ma una coscienza sociale molto forte. Forse dettata da quella assenza di tutto, per giorni e giorni.

Alessandro Quasimodo

L’ultima raccolta di Quasimodo, Dare e avere, risale al 1966 e costituisce una sorta di bilancio della propria esperienza poetica ed umana: accanto ad impressioni di viaggio e riflessioni esistenziali molti testi affrontano, in modo più o meno esplicito, il tema della morte, con accenti di notevole intensità lirica.

Dare e avere

Dare e avere Nulla mi dài,

non dài nulla tu che mi ascolti.

Il sangue delle guerre s’è asciugato,

il disprezzo è un desiderio puro

e non provoca un gesto da un pensiero umano,

fuori dall’ora della pietà.

Dare e avere.

Nella mia voce c’è almeno un segno

di geometria viva,

nella tua,

una conchiglia morta con lamenti funebri.

 

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